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Le attuali direttive OMS sottolineano come esista l’esigenza di offrire supporto psicologico al caregiver a fronte dell’ energia spesa quotidianamente per il suo compito di assistenza informale: la comunità scientifica internazionale considera ormai il caregiver un “paziente nascosto” soggetto a forme di depressione e DPTS da correlare allo stress provocato dalla convivenza continua con la malattia del carerecipient. E’ accertato che l’attività di cura sia in grado di abbassare le difese immunitarie del familiare convivente, attraverso la modificazioni del ritmo sonno-veglia e delle abitudini alimentari, e mediante il profondo disagio psicologico sperimentato e spiegato dall’esigenza di adattarsi allo stato di infermità del genitore o del coniuge (ibidem). I caregiver riferiscono spesso sentimenti di svilimento, angoscia, deprivazione energetica dovuta al carico assistenziale, solitudine, assenza di relazioni sociali al di fuori del contesto della malattia. All’interno di un equipe multidisciplinare è compito fondamentale e imprescindibile dello psicologo prevenire, sanare e curare situazioni di «burden» psico-fisico che hanno indiscutibilmente un effetto negativo sulla vita del paziente, così come valutare la resilienza e i punti di forza utili a contrastare la patologia (Nesci, 2015). Nel caregiver l’aumento di cortisolo porta ad un controllo inefficiente delle risposte fisiologiche, oltre che, a livello cognitivo, un decremento di memoria e bassi livelli di attenzione e velocità percettiva. L’effetto di tale carico di emozioni e preoccupazioni “invisibile” agli occhi degli altri nuoce al benessere e alla salute mentale del caregiver, per il lavoro di cura informale che egli è chiamato a svolgere. Un’alleanza terapeutica efficace dell’equipe che ha in carico il paziente non solo con il paziente stesso ma anche con i suoi familiari, sia in grado di garantire a parità di condizioni di partenza un miglior decorso della malattia, e una prognosi più favorevole (ibidem). Per sostenere una persona affetta da patologia è necessario sostenere chi se né prende cura quotidianamente. Un psicoterapeuta responsabile ha pertanto il dovere di prendersi cura non solo del paziente ma anche di chi si prende cura di lui, di ascoltare e accogliere anche il suo dolore, in un contesto di terapia familiare, poiché da tale accoglienza trova beneficio l’ intero nucleo familiare (Rossini, 2020). L’inevitabile progressione della patologia dal punto di vista cognitivo, comportamentale e sanitario, costituisce una sfida continua per il caregiver, che subisce quindi un carico fisico, psicologico oltre che economico (Guglielmi, 2020). La percezione di un carico di cura eccessivo rivolto al malato viene definito burden ed è costituito dall’insieme dei problemi fisici, psicologici o emozionali, sociali e finanziari che devono affrontare i familiari di con deficit fisici o cognitivi. Il burden provoca un forte stress e la sensazione di non riuscire a far fronte alle richieste di cura (Zarit, 1986). È possibile distinguere tra aspetti oggettivi del carico che sono legati all’impegno fisico, assistenziale e alla gestione dei disturbi comportamentali del malato, e aspetti soggettivi-emotivi, riguardanti tematiche di perdita di identità del malato, di intimità e reciprocità nella relazione, isolamento e ritiro sociale del caregiver. La letteratura ha evidenziato come questi ultimi aspetti siano strettamente correlati con il benessere fisico e psicologico del caregiver (Zarit, 1986). Il burden ha spesso serie conseguenze negative, in particolare sulla salute emotiva e psicologica (Gonzalez-Salvador et al., 1999). È documentato un aumento degli stati di patologia (Pinquart e Sorensen, 2006), della mortalità (Schulz e Beach, 1999), dei livelli di ansia e depressione (Cuijpers, 2005). I sintomi relativi all’ansia, alla depressione e al burden del caregiver sono molto comuni e associati ad una bassa qualità di vita (Cuijpers, 2005; Cooper et al., 2007; Abdollahpour et al., 2015). Non è sorprendente infatti che i caregiver di malati di patologie degenerative siano considerati ad alto rischio di morte per suicidio, e tale rischio non sembra diminuire con la morte o l’istituzionalizzazione del malato (O’Dwyer et al., 2016; Joling et al., 2018). Il ruolo del caregiver muta nel corso dell’intero periodo di assistenza, dall’esordio fino all’istituzionalizzazione e al decesso del paziente. Il prendersi cura di un parente con patologia degenerativa è riconosciuta come una situazione stressante cronica; infatti, i caregiver devono affrontare notevoli richieste e tensioni emotive durante un lungo periodo di tempo (Vitaliano et al., 2003). Questa situazione stressante e cronica rende i caregiver vulnerabili allo sviluppo di patologie mentali e depressione. Studi trasversali e longitudinali hanno dimostrato che il carico prolungato e lo stress del caregiver possono aumentare il rischio di sviluppare una sintomatologia depressiva (O’Rourke e Tuokko, 2004; Epstein-Lubow et al., 2008). Sono stati proposti diversi modelli (Pearlin, et al., 1990; Vitaliano et al., 2003) in cui si ipotizza che le risorse personali dei caregiver, come strategie di coping e fattori comportamentali, mediano l'influenza degli stressors sulla salute fisica e mentale. I caregiver raramente sono in grado di ridurre le esigenze del loro ruolo di assistenza e gli effetti negativi dell’attività di cura sulla salute degli stessi possono interferire con la loro capacità di continuare nel loro ruolo di aiuto. L'autoefficacia è correlata negativamente alla depressione, e l'associazione a lungo termine tra il carico del caregiver, il suo senso di autoefficacia e i sintomi depressivi sono stati recentemente analizzati e dimostrati (Grano, Lucidi, Violani 2018). Interventi mirati per caregiver possono pertanto essere utili per affrontare i pensieri negativi, disfunzionali per prevenire situazioni di burden psico-fisico e ulteriore flessione del tono dell'umore.
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dott.ssa Vallillo psicoterapeuta articoli
Febbraio 2024
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