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Il filone di ricerca sui siblings (termine che nel mondo anglosassone indica semplicemente un legame di fraternità, mentre nel panorama italiano, fa riferimento nello specifico a fratelli e sorelle di persone con disabilità e/o neurodiversità) è stato per molto tempo trascutato e affrontato dalla letteratura scientifica solo negli ultimi anni. Essere siblings può essere un’esperienza faticosa, ma al tempo stesso arricchente, a patto che vengano riconosciute le sfide aggiuntive da loro affrontate, e che i bambini, ragazzi, adolescenti e adulti non restino soli nel percorso di crescita a elaborare le implicazioni che inevitabilmente una patologia o neurodiversità comporta per la famiglia. Occuparsi dei siblings indica la volontà di ampliare lo sguardo, non concentrandosi sulle caratteristiche specifiche della disabilità e/o sui deficit, ma valorizzando le potenzialità e le risorse intrinseche in ogni famiglia anche quando appaiono poco evidenti o addirittura represse, invisibili e/o dimenticate (Dondi 2019). Se per i genitori l’accudimento verso i figli è un processo naturale, che può diventare più difficoltoso per il disturbo di cui è affetto il figlio, per un fratello non è scontato pensare di doversi fare carico della patologia e della vita del proprio caro, una volta che i genitori non ci saranno più (Cicotti 2021). La Società Italiana di Pediatria (SIP) e la Società Italiana di Malattie Genetiche Pediatriche e Disabilità Congenite (SIMGePeD) hanno deciso di realizzare con la collaborazione di 11.000 pediatri uno studio per comprendere quale sia la loro percezione relativa alla condizione che vivono i fratelli e le sorelle di pazienti affetti da patologie rare all’interno delle famiglie.. Il benessere psicologico del sibling, la percezione della qualità della sua vita relazionale, la presenza di una rete di supporto a cui fare affidamento, influenzano in maniera dinamica e circolare il benessere di tutta la famiglia, della coppia genitoriale e anche del fratello con neurodiversità. La ricerca ha dimostrato quanto sia importante offrire supporto alle famiglie con soggetti con disabilità e ai siblings durante il loro intero arco di vita, per promuovere un modello di inclusione che non sia frammentato, bensì evolutivo, ed in grado di cogliere la grande sfida del “Dopo di Noi”. Essere fratello o sorella di una persona con disabilità è un’esperienza determinante per ognuno ed è certamente una condizione che accompagnerà la persona per tutta la vita, una relazione unica e irripetibile, nella quale le persone fanno esperienza della confidenza e dell’intimità, della possibilità di gestire i conflitti, di offrire e ricevere supporto, in un rapporto che si modifica durante le diversi fasi del ciclo di vita. I siblings a differenza dei genitori condividono con i fratelli la stessa generazione e lo stesso periodo di crescita e formazione, quindi quando i siblings sono piccoli, avvertono la loro impotenza nei confronti del disagio dei genitori e vivono sentimenti ambivalenti tra cui gelosia, ansia, rabbia e senso di colpa; crescendo provano smarrimento in quanto non sanno cosa fare per supportare i genitori, non hanno coetanei con cui confrontarsi su tali tematiche e per non gravare sulla situazione familiare, in maniera autonoma, cercano di attribuire un significato agli eventi che si susseguono, in una quasi costante dicotomia tra funzione di sostegno e bisogno di indipendenza e libertà (Geraci 2021). Ricerche recenti hanno dimostrato come avere una persona con necessità speciali in famiglia presenta richieste uniche a tutti i membri della famiglia stessa, inclusi i fratelli neurotipici. Anche se le sfide esistono, sono spesso accompagnate da contributi positivi sia a breve che a lungo termine: i siblings hanno spesso rispetto ai loro coetanei un tasso superiore di empatia, senso di responsabilità, profondità di pensiero, resilienza, sensibilità, solidarietà, capacità di insegnamento e vicinanza, e un tasso inferiore di conflitto e rivalità; avere un membro della famiglia con una disabilità rende gli altri membri, inclusi i bambini normodotati, più attenti alle necessità altrui. Nonostante ciò molti di questi fratelli/sorelle percepiscono e crescono con l’idea di avere un’avvenire segnato dalle aspettative genitoriali, poiché sono destinati a diventare caregiver dei loro fratelli e vivono il futuro con preoccupazione e ansia. Sebbene i siblings possano mostrare un livello maggiore di resilienza e strategie di coping adattive, anche a fronte di problemi familiari e a stress oggettivi superiore rispetto ai soggetti non siblings, è importante intercettare precocemente nei siblings forme di disagio e/o vulnerabilità. Occuparsi dei siblings e sostenere le loro esigenze evolutive si concretizza nel condividere pratiche evidence based, nel far emergere bisogni irrisolti rispetto ai servizi erogati, e alle criticità nei percorsi di presa in carico, per un prendersi cura che sia davvero centrato sulle esigenze dell’individuo Bibliografia Buchanan, A., & Rotkirch, A. (Eds.). (2021). Brothers and Sisters: Sibling Relationships Across the Life Course. Palgrave Macmillan. Grant, M., & McNeilly, P. (2021). Children and young people’s experiences of having a sibling with complex health needs: a literature review. Nursing Children and Young People, 33(3). Luo, D., Gu, W., Bao, Y., Cai, X., Lu, Y., Li, R., ... & Li, M. (2021). Resilience outstrips the negative effect of caregiver burden on quality of life among parents of children with type 1 diabetes: An Application of Johnson–Neyman Analysis. Journal of Clinical Nursing, 30(13-14), 1884-1892. Meltzer, A., & Muir, K. (2021). An ecological and systems thinking approach for support to siblings with and without disabilities. Social Theory & Health, 1-17. Mitchell, A. E., Morawska, A., Vickers-Jones, R., & Bruce, K. (2021). A Systematic Review of Parenting Interventions to Support Siblings of Children with a Chronic Health Condition. Clinical Child and Family Psychology Review, 24(3), 651-667. Orsmond, G. I., & Long, K. A. (2021). Family impact and adjustment across the lifespan: Siblings of individuals with intellectual and developmental disabilities.
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Già nelle ricerche sulla “Family Systems Theory” (Bowen, 1979) l’autore include lo studio del comportamento della famiglia di fronte alla minaccia di malattia e rimarca l’esistenza di un’onda di shock emozionale che si diffonde intergenerazionalmente provocando disturbi psicopatologici nei suoi membri. Altri autori sistemici (Paul, Grosser 1965), hanno molto insistito su come lutti irrisolti nel passato familiare possono avere un grande impatto nelle fasi transizionali del ciclo vitale, specialmente quando si devono affrontare cambiamenti e perdite. In una ricerca bibliografica sul lutto familiare ( Kissane e Bloch ,1994), gli autori insistono sulla scarsità degli studi familiari-sistemici a fronte dell’abbondanza di ricerche empiriche fatte sul lutto individuale.. L’esordio della malattia neurodegenerativa è lento e insidioso, spesso sottovalutato e l’evoluzione si compone di perdite continue irreparabili. Nel caso di afasia progressiva si può parlare di perdite ambigue (Boss 2011), in quanto lo stato di lutto è presente anche in assenza di una perdita definitiva, la persona è presente fisicamente ma psicologicamente assente. Si tratta di un lutto congelato, destinato a durare nel tempo se non affrontato. Il lutto è generalmente inteso come la risposta psicologica alla rottura di una relazione di attaccamento significativo attraverso la morte o la perdita (Bowlby, 1973, 1969; Mancini et al., 2009; Neimeyer et al., 2002; Shear, 2010; Stroebe et al., 2020). Nella malattia degenerativa, il lutto prima della morte. del malato è sperimentato dal 71% dei caregivers (Chan et al., 2013). L’esperienza del lutto può essere vissuta sia durante l’assistenza a domicilio ma anche dopo il ricovero del malato in una struttura adeguata; può essere vissuta sia dagli uomini che dalle donne e sia che il caregiver sia il coniuge o un figlio del malato. I caregivers mostrano una elevata presenza di stress, dolore e depressione prima della morte fisica della persona (Adams e Sanders, 2004; Joling et al., 2012; Meuser e Marwit, 2001; Ott et al., 2010; Pinquart e Sorensen, 2004), ma raramente vengono riconosciuti i sintomi del lutto pre-morte (Marwit e Meuser, 2001; Sanders e Corley, 2003; Silverberg, 2007). La condizione di lutto pre-morte aumenta con l’avanzare della malattia (Adams e Sanders, 2004; Chan et al., 2013; Meuser e Marwit, 2001; Ott et al., 2010;), con il peggioramento della salute del caregiver (Holley e Mast, 2007), e con l’incremento del burden del caregiver (Chan et al., 2013; Holley e Mast, 2009). Il ricovero in istituto della persona malata può portare ad un aumento dello stress da separazione, della tristezza e del senso di colpa (Kiely et al., 2008; Rudd et al., 1999). Il lutto pre-morte e il lutto complicato post-morte sono correlati: il lutto complicato si può osservare per qualsiasi perdita ed è definito come una forma prolungata e severa di lutto che include stress per la separazione, pensieri intrusivi e incapacità di elaborare la perdita (Shear, 2010). Dopo la morte del soggetto affetto da demenza, si osserva approssimativamente nel 20% dei casi un lutto complicato nei caregivers ed il 30% di essi sono a rischio di depressione clinica nel primo anno dalla morte (Schulz et al., 2006). Il maggior predittore di questo lutto complicato è proprio il lutto pre-morte (Holland et al., 2009; Schulz et al., 2006). Gli interventi sul burden e lo stress nei caregiver, riducono il rischio di depressione post-morte e di lutto complicato (Hebert et al., 2006; Schulz et al., 2006). Il lutto anticipatorio nel caregiver del malato ricopre un ruolo unico perché è già presente quando il malato è ancora in vita. Viene definito come “the emotional and physical response to the perceived losses in a valued care recipient”. Anche se in talune occasioni c'è l'opportunità per la risoluzione dei conflitti e la condivisione dei sentimenti tra la persona malata e i suoi familiari (Lindauer e Harvath, 2014), nell’afasia questo processo è impedito dai deficit di comunicazione e consapevolezza del malato presenti già nelle fasi precoci di malattia (Noyes et al., 2010; Santulli e Blandin, 2015). Il lutto nella patologia degenerativa possiede alcune caratteristiche peculiari che lo distinguono da altre tipologie di lutto in quanto il caregiver vive una serie di gravi perdite prima della morte fisica del malato (Chan et al. 2013; Large e Slinger, 2013; Santulli e Blandin, 2015). Inizialmente queste perdite sono relative all’insorgenza di deficit di memoria e di comunicazione come anche il ritiro dalle attività sociali. Successivamente le perdite riguardano l’autonomia della persona malata, quindi funzioni come cucinare, guidare e vestirsi (Mace e Rabins, 2006; Mittelman et al., 2003; Santulli, 2011). I caregivers sono quindi esposti ad una serie di continue perdite di diversa entità che si susseguono per tutta la durata della malattia (Mace e Rabins, 2006; Mittelman et al., 2003; Santulli, 2011; Santulli e Blandin, 2015). Il lutto nella demenza è caratterizzato dall’ambiguità nelle perdite (Boss 1999; Boss 2002; Boss 2011), che deriva dal modo in cui le perdite variano attraverso la traiettoria della malattia (fluttuazioni del profilo cognitivo e di personalità), così come i tipi di perdite (perdita della possibilità di chiarimenti con il malato, perdita degli investimenti per il futuro quando la persona è però ancora in vita) (Chan et al., 2013; Noyes et al., 2010; Sanders e Corely, 2003; Santulli e Blandin, 2015). Contribuisce a questa sensazione di ambiguità anche l’incertezza per il futuro: non è possibile predire la durata della malattia e la progressione del peggioramento (Sanders e Corley, 2003; Shuter et al., 2013) e anche la perdita del sé conosciuto (Blandin e Pepin 2016) che viene definita come il progressivo e continuo cambiamento nelle caratteristiche di personalità, memorie e abilità che si osservano nel malato nel corso di malattia, prima della morte. Altri autori (Lindauer and Harvath 2014) osservano che il lutto nel caregiver è primariamente una risposta alla perdita dell’identità della persona malata, inoltre questa perdita è particolarmente dolorosa perché vissuta lentamente nel tempo (Albinsson e Strang, 2003; Lindauer e Harvath, 2014; Sanders et al., 2008; Sanders e Corley, 2003). Il caregiver lotta per stare in relazione con una persona che è presente fisicamente ma non è più quella che conosceva. Molte ricerche hanno dimostrato l’impatto che il lutto nella demenza ha sul caregiver è associato a sintomi depressivi (Sanders e Adams, 2005) e al livello di burden (Holley e Mast, 2009). Molto spesso i caregivers tendono ad evitare emozioni dolorose associate a questo tipo di lutto (Meichsner et al., 2016; Sanders e Sharp, 2004). Recentemente alcuni autori (Blandin e Pepin, 2016) hanno invece proposto un modello del lutto nella demenza come processo, non solo come sintomo, basato sulle caratteristiche uniche di questo tipo di lutto e che propone meccanismi specifici che facilitano o ostacolano il processo. Secondo gli autori (Blandin e Pepin, 2016), il lutto nella demenza gira intorno a tre stati: separazione, liminalità e rinascita. Ogni stato è caratterizzato da stati mentali specifici e ha un meccanismo dinamico che favorisce il processo del lutto. Fallimenti di tale meccanismo possono influenzare la direzione del processo, aggiungendo stress al caregiver. Bibliografia Dempsey, L., Dowling, M., Larkin, P., & Murphy, K. (2020). Providing care for a person with late-stage dementia at home: What are carers’ experiences?. Dementia, 19(2), 352-374. Lindauer, A., & Harvath, T. A. (2014). Pre‐death grief in the context of dementia caregiving: A concept analysis. Journal of Advanced Nursing, 70(10), 2196-2207. Lindauer, A., & Harvath, T. A. (2015). The meanings caregivers ascribe to dementia-related changes in care recipients: A meta-ethnography. Research in Gerontological Nursing, 8(1), 39-48. Maier, A. La Demenza come Lutto per il Caregiver. Varkanitsa, M., Godecke, E., & Kiran, S. (2023). How Much Attention Do We Pay to Attention Deficits in Poststroke Aphasia?. Stroke, 54(1), 55-66.
Lo studio delle dinamiche tra gruppi e le sue applicazioni in ambito evolutivo ed educativo hanno dimostrato come esse abbiano ripercussioni non solo sul benessere personale e individuale dello studente, a livello sociale sulle relazioni con i pari, ma soprattutto nel migliorare e perfezionare la qualità dell'apprendimento. In una società in continua evoluzione e mutamento che richiede costantemente nel mondo del lavoro e non solo, nuove abilità di problem-solving, di gestione delle proprie risorse cognitive e una buona capacità di adattarsi e comunicare con gli altri indipendentemente dalla propria cultura e impostazione originaria, l'apprendimento cooperativo si configura come uno strumento prezioso e importante. Spesso, all'estero ma soprattutto in Italia, si è assistito al fenomeno per cui se la il contesto esterno continuava a modificarsi la scuola rimaneva ferma, nelle metodologie didattiche utilizzate, creando una discrepanza così tra le competenze che la scuola impartiva ai suoi studenti e ciò che veniva loro richiesto al di fuori. Il rimanere bloccati a metodologie di lavoro tradizionali, utilizzate dapprima per classi di pochi alunni, con studenti altamente selezionati, e non più congrue quindi ad essere utilizzate in classi più ampie che si proponevano obiettivi di studio diversi, ha comportato che in questi anni molta energia non solo economica e organizzativa ma anche intellettuale e gestionale venisse investita in strutture troppo rigide e per questo disfunzionali. La diffusione di internet e i cambiamenti nella comunicazione, nella socializzazione e nelle strategie di apprendimento degli esseri umani non possono essere scisse da quella che è la riflessione sul sistema scolastico, bensì vi devono essere inglobate per offrire nuovi e più interessanti spunti di lavoro e sperimentazione. Urge un cambiamento nella modalità di pensare il sistema scolastico italiano nel quale l' accesso ora più rapido e più semplice alle informazioni e al sapere non deve essere visto come un possibile destabilizzatore della professionalità della figura dell'insegnante, considerato nella scuola italiana come unica fonte e veicolatore del sapere, ma come un arricchimento, attraverso il quale l' insegnante può assumere un ruolo diverso all' interno della classe, ovvero quello di favorire la partecipazione attiva degli studenti alle lezioni, di stimolare le loro capacità di problem solving e di apprendere insieme in maniera cooperativa. Bibliografia Abramczyk, A., & Jurkowski, S. (2020). Cooperative learning as an evidence-based teaching strategy: What teachers know, believe, and how they use it. Journal of Education for Teaching, 46(3), 296-308. Erbil, D. G. (2020). A review of flipped classroom and cooperative learning method within the context of Vygotsky theory. Frontiers in psychology, 11, 1157. Hamadi, M., El-Den, J., Azam, S., & Sriratanaviriyakul, N. (2022). Integrating social media as cooperative learning tool in higher education classrooms: An empirical study. Journal of King Saud University-Computer and Information Sciences, 34(6), 3722-3731. Han, S. I., & Son, H. (2020). Effects of Cooperative Learning on the Improvement of Interpersonal Competence among Students in Classroom Environments. International Online Journal of Education and Teaching, 7(1), 17-28. Marcos, R. I. S., Fernández, V. L., González, M. T. D., & Phillips-Silver, J. (2020). Promoting children’s creative thinking through reading and writing in a cooperative learning classroom. Thinking Skills and Creativity, 36, 100663. Silalahi, T. F., & Hutauruk, A. F. (2020). The application of cooperative learning model during online learning in the pandemic period. Budapest International Research and Critics Institute-Journal (BIRCI-Journal), 3(3), 1683-1691. Via libera in Stato-Regioni al Piano nazionale delle Malattie rare 2023-2026. Per attuarlo stanziati 50 mln. Diagnosi più rapide, migliore erogazione dei farmaci e assistenza integrata - Quotidiano Sanità (quotidianosanita.it) Rare Diseases represent a real challenge for the Italian National Health System. They are a heterogeneous group that gathers between 7 and 8 thousand different pathologies, some still unnamed; and involving, globally, about 300 million people, a figure equal to 8-10% of the world population, it is therefore a matter of public health and global health. A disease is considered rare if, in the general population, it has a prevalence lower than a given threshold, codified by the legislation of each individual country. For many rare diseases, both diagnosis and treatment can be difficult, both due to a low level of medical-scientific knowledge, and due to the little interest, that pharmaceutical companies have and would have in the research and production of drugs that can be used by very few customers, which have a prevalence of less than 5 cases per 10 000 people. The Ministerial Decree n. 279 of 18 May 2001 provides for the establishment of a national network dedicated to rare diseases, through which to develop prevention actions, activate surveillance, improve interventions aimed at diagnosis and therapy, and promote information and training. A provision already unanimously approved by the Chamber of Deputies on 26 May 2021 is currently under discussion in the Senate, which dictates provisions aimed at guaranteeing the treatment of rare diseases and support for the research and production of orphan drugs aimed at the therapy of these pathologies. The text governs various aspects, from research to the importation of medicines from abroad to support, care and assistance for people affected by these diseases. It is also foreseen the allocation of funds for preclinical and clinical observational studies promoted in the field of rare diseases. According to data coordinated by the National Register of Rare Diseases of the Higher Health Institute, 20% of diseases involve people of pediatric age (under the age of 14), in this patient population the rare diseases that occur most frequently are congenital malformations (45%), diseases of the endocrine glands, nutrition or metabolism and immune disorders (20%). Eight out of 10 cases are diagnosed by the specialist and general practitioners 2 hypothesize a rare disease in only 4.2% of cases (pediatric 16.75%). It is estimated that a general practitioner with 1,500 patients should have 4 to 8 patients with rare disease in care. Even when the diagnosis is made by a referral center, it is often the patient himself who acts as a liaison with his doctor. Moving towards a form of integrated clinical networks for patient care shared between general medicine and specialist medicine is what is required by patients and associations. In 2021 the Italian Society of Pediatrics (SIP) and the Italian Society of Pediatric Genetic Diseases and Congenital Disabilities (SIMGePeD) decided to carry out a survey on 11,000 pediatricians to understand their perception of the condition that brothers and sisters live of patients with rare diseases within families. In recent years, there has been an evolution in pharmaceutical research, in the involvement of industries and in the (regulatory) authorization process of drugs intended for increasingly smaller patient groups. In 2016, the European Medicines Agency (EMA) launched the PRIME program to enhance support for drug development targeting an unmet medical need. This scheme relies on increased interaction and early dialogue with promising drug developers to streamline development plans and accelerate evaluation so that these drugs can reach patients sooner. Through PRIME, the Agency offers timely and proactive support to drug developers to optimize the generation of reliable data on the benefits and risks of a medicine and enable accelerated evaluation of drug applications. This will help patients benefit from therapies that can significantly improve their quality of life as soon as possible. PRIME builds on the existing regulatory framework and tools already available such as scientific advice and accelerated evaluation. This means that developers of a medicine that has benefited from PRIME can expect to be eligible for accelerated assessment when applying for a marketing authorization. Timely dialogue and scientific advice also ensure that patients only participate in studies designed to provide the data necessary for an application, making the best use of limited resources. These medicines are considered a priority by the EMA, as they can offer an important therapeutic advantage over existing treatments or be critical for patients who have no other treatment options. The Order of Psychologists has hypothesized, for these pathologies, a translation, in clinical practice, of a holistic vision deriving from a biopsychosocial approach, with the involvement and activation of all the resources of a multidisciplinary and multi-professional team, in order to: maximize the effects of good communication, promote and facilitate the 3 management of relationships, emotions and stress within a work team taking into account multidimensional needs. The conception of the quality of life of the patient with chronic and rare pathology, i.e. the perception that individuals have of their position in life, in the context of the culture and value systems in which they live, in relation to their goals, expectations, standards and concerns, is a multidimensional and dynamic construct, closely related to the definition of Health sanctioned by the World Health Organization, that is, as a state within a continum, characterized by complete physical, mental and social well-being, and not simply by absence of disease or infirmity. At the congress held in June 2001 as part of the Therapeutic Adherence Project, WHO defined this construct (Haynes and Rand) as the extent to which a person's behavior - in taking medications, following a diet and / or implement lifestyle changes - corresponds to the recommendations of health professionals, shared by the patient. Access to care for these patients is more difficult, especially since these diseases are diagnosed late after a process that is often stressful and invasive on a psychological level, capable of leaving long-term aftermath (there is numerous scientific evidence that demonstrates the correlation between Long and stressful diagnostic procedures and the development of PTSD, Pavan et al. 2018). Patients often complain with pain of the difficulty resulting from the inability to contact the general practitioner for their pathology, and to find specialist facilities in the area suitable for treatment and diagnosis. All this generates anger, frustration, stress and discomfort in the patient, as his needs are not recognized and validated by the surrounding reality. Each diagnosis of pathology brings with it a marked redefinition of one's life project, of one's perception of oneself, one's identity and the active role that one plays in affective, social and work-related relationships. Hence the need to build a multidisciplinary specialist network, among which the figure of the neuropsychologist and the psychotherapist in his role as a "bridge" with double direction: towards the patient with respect to psycho-emotional support and support, and psychoeducational towards the team, as a facilitator and mediator in communication and relationship management processes. The presence of the psychotherapist in the context of the clinic for chronic and rare diseases, alongside the figure of the doctor is motivated by the need to analyze and contain, in a scientific and systematic way and, through the tools of his profession, the psychic experiences that the patient constantly reports and correlates to his illness, as well as evaluating how adaptive the coping strategies he uses 4 are. Clinical Intelligence offers tools that the clinician can use to get to know the patient's previous history in depth, his vulnerabilities, then to develop personalized care projects tailored to his needs, something that was not possible up to a few years, coming to structure a personalized medicine, with a treatment project tailored to the patient. The daily coexistence with the symptoms deriving from a persistent, progressive and infrequent disease in the general population constitutes a condition of vulnerability for the health and, for example, the psychological well-being of the affected subject. Empirical research has shown how unsolved psychological problems in these types of patients led, all things being equal, to a less favorable prognosis and course of the disease. A comprehensive management of the patient with comorbidities could solve gaps and gaps in the care, often experienced as an emotional overload by families and patients. It will be the ability to meet these needs, both on the part of the caregiver and the care team, which will then determine the psychological response of the patient and his family. It therefore becomes important to evaluate what support to offer to the caregiver, to consider his psychological experience, which could also emerge in a phase following the assessment (Lucidi et al. 2017), to which the psychologist can respond, in the event that there are specific needs. emotional or relational, or the entire team if it comes to information and communication needs. A similar analysis is essential to evaluate the outcome indicators of the rehabilitation process and to measure any reduction in perceived care needs. Sharing "proven practices", bringing out unresolved needs with respect to the services provided and the critical issues in the care pathways, guaranteeing the quality of the data in the dedicated Registers and the planning of appropriate resources, are the objectives for addressing the great issue of rare diseases. The personalization of care must not stop only at the diagnostic process but must go above all to the therapeutic and assistance one. BIBLIOGRAFIA Chung, H., Kim, S. Y., Kang, J., Phi, J. H., Kim, W. H., Yang, S. W., ... & Chae, J. H. (2021). Siblings With Familial Dwarfism Presenting With Acute Myocardial Infarction at Adolescence. Case Reports, 3(5), 795-800. Colombo, P., Ariano, S., & Lania, A. (2021). Sindrome da resistenza agli ormoni tiroidei: dalla genetica alla gestione clinica. L'Endocrinologo, 22(2), 113-118. Dębska, G., Milaniak, I., Domańska, D., & Tomaszek, L. (2019). Caregiver burden and the role of social support in the care of children with cystic fibrosis. 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European Journal of Human Genetics, 28(2), 165-173 Le attuali direttive OMS sottolineano come esista l’esigenza di offrire supporto psicologico al caregiver a fronte dell’ energia spesa quotidianamente per il suo compito di assistenza informale: la comunità scientifica internazionale considera ormai il caregiver un “paziente nascosto” soggetto a forme di depressione e DPTS da correlare allo stress provocato dalla convivenza continua con la malattia del carerecipient. E’ accertato che l’attività di cura sia in grado di abbassare le difese immunitarie del familiare convivente, attraverso la modificazioni del ritmo sonno-veglia e delle abitudini alimentari, e mediante il profondo disagio psicologico sperimentato e spiegato dall’esigenza di adattarsi allo stato di infermità del genitore o del coniuge (ibidem). I caregiver riferiscono spesso sentimenti di svilimento, angoscia, deprivazione energetica dovuta al carico assistenziale, solitudine, assenza di relazioni sociali al di fuori del contesto della malattia. All’interno di un equipe multidisciplinare è compito fondamentale e imprescindibile dello psicologo prevenire, sanare e curare situazioni di «burden» psico-fisico che hanno indiscutibilmente un effetto negativo sulla vita del paziente, così come valutare la resilienza e i punti di forza utili a contrastare la patologia (Nesci, 2015). Nel caregiver l’aumento di cortisolo porta ad un controllo inefficiente delle risposte fisiologiche, oltre che, a livello cognitivo, un decremento di memoria e bassi livelli di attenzione e velocità percettiva. L’effetto di tale carico di emozioni e preoccupazioni “invisibile” agli occhi degli altri nuoce al benessere e alla salute mentale del caregiver, per il lavoro di cura informale che egli è chiamato a svolgere. Un’alleanza terapeutica efficace dell’equipe che ha in carico il paziente non solo con il paziente stesso ma anche con i suoi familiari, sia in grado di garantire a parità di condizioni di partenza un miglior decorso della malattia, e una prognosi più favorevole (ibidem). Per sostenere una persona affetta da patologia è necessario sostenere chi se né prende cura quotidianamente. Un psicoterapeuta responsabile ha pertanto il dovere di prendersi cura non solo del paziente ma anche di chi si prende cura di lui, di ascoltare e accogliere anche il suo dolore, in un contesto di terapia familiare, poiché da tale accoglienza trova beneficio l’ intero nucleo familiare (Rossini, 2020). L’inevitabile progressione della patologia dal punto di vista cognitivo, comportamentale e sanitario, costituisce una sfida continua per il caregiver, che subisce quindi un carico fisico, psicologico oltre che economico (Guglielmi, 2020). La percezione di un carico di cura eccessivo rivolto al malato viene definito burden ed è costituito dall’insieme dei problemi fisici, psicologici o emozionali, sociali e finanziari che devono affrontare i familiari di con deficit fisici o cognitivi. Il burden provoca un forte stress e la sensazione di non riuscire a far fronte alle richieste di cura (Zarit, 1986). È possibile distinguere tra aspetti oggettivi del carico che sono legati all’impegno fisico, assistenziale e alla gestione dei disturbi comportamentali del malato, e aspetti soggettivi-emotivi, riguardanti tematiche di perdita di identità del malato, di intimità e reciprocità nella relazione, isolamento e ritiro sociale del caregiver. La letteratura ha evidenziato come questi ultimi aspetti siano strettamente correlati con il benessere fisico e psicologico del caregiver (Zarit, 1986). Il burden ha spesso serie conseguenze negative, in particolare sulla salute emotiva e psicologica (Gonzalez-Salvador et al., 1999). È documentato un aumento degli stati di patologia (Pinquart e Sorensen, 2006), della mortalità (Schulz e Beach, 1999), dei livelli di ansia e depressione (Cuijpers, 2005). I sintomi relativi all’ansia, alla depressione e al burden del caregiver sono molto comuni e associati ad una bassa qualità di vita (Cuijpers, 2005; Cooper et al., 2007; Abdollahpour et al., 2015). Non è sorprendente infatti che i caregiver di malati di patologie degenerative siano considerati ad alto rischio di morte per suicidio, e tale rischio non sembra diminuire con la morte o l’istituzionalizzazione del malato (O’Dwyer et al., 2016; Joling et al., 2018). Il ruolo del caregiver muta nel corso dell’intero periodo di assistenza, dall’esordio fino all’istituzionalizzazione e al decesso del paziente. Il prendersi cura di un parente con patologia degenerativa è riconosciuta come una situazione stressante cronica; infatti, i caregiver devono affrontare notevoli richieste e tensioni emotive durante un lungo periodo di tempo (Vitaliano et al., 2003). Questa situazione stressante e cronica rende i caregiver vulnerabili allo sviluppo di patologie mentali e depressione. Studi trasversali e longitudinali hanno dimostrato che il carico prolungato e lo stress del caregiver possono aumentare il rischio di sviluppare una sintomatologia depressiva (O’Rourke e Tuokko, 2004; Epstein-Lubow et al., 2008). Sono stati proposti diversi modelli (Pearlin, et al., 1990; Vitaliano et al., 2003) in cui si ipotizza che le risorse personali dei caregiver, come strategie di coping e fattori comportamentali, mediano l'influenza degli stressors sulla salute fisica e mentale. I caregiver raramente sono in grado di ridurre le esigenze del loro ruolo di assistenza e gli effetti negativi dell’attività di cura sulla salute degli stessi possono interferire con la loro capacità di continuare nel loro ruolo di aiuto. L'autoefficacia è correlata negativamente alla depressione, e l'associazione a lungo termine tra il carico del caregiver, il suo senso di autoefficacia e i sintomi depressivi sono stati recentemente analizzati e dimostrati (Grano, Lucidi, Violani 2018). Interventi mirati per caregiver possono pertanto essere utili per affrontare i pensieri negativi, disfunzionali per prevenire situazioni di burden psico-fisico e ulteriore flessione del tono dell'umore.
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dott.ssa Vallillo psicoterapeuta articoli
Febbraio 2024
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